“...Qui nel nostro paese, che per lo più si fanno Vini neri per Venetia di uva nera, che si chiama recantina, altri la chiamano rabosa, per esser uva di natura forte, e il suo vero modo di esercitarla è il vendemmiar come si costuma nelle brente empite co’ cesti, perché nel vendemmiar, empir la brenta, e poi butarla nel tinozzo, se ne rompe qualche poca, e così si lascia scaldar l’uva col fondamento di quel poco di mosto...
...il scorzo dell’uva infracidisse, dal qual scorso s’attende il nero, perché il mosto per se stesso non è nero, ma lo scorzo è negrissimo, e ciò si prova quando l’uva è matura, che mettendone un grano in bocca….”
Segue una descrizione del processo di vinificazione sottolineando il valore del colore di questo vino che deve risultare “negri sismo” e aggiunge:
“la qual diligenza di negrezza si fa perché li mercanti di Venetia stimano oltremodo la negrezza di questi nostri vini, con quali stimo ne aggiustino d’altri paesi, che non riescono così neri.”
Questo è il celebre ricordo XXIV nel quel Giacomo Agostinetti afferma alcune cose di grande interesse anche attualmente. Innanzi tutto che “nel nostro paese”, quindi Cimadolmo e, conseguentemente nelle terre del Piave ricolme di sassi portati dalle esondazioni del fiume, si producevano prevalentemente vini neri da un’uva chiamata sia recandina che rabosa. L’uva che meglio corrisponde alla descrizione dell’Agostinetti è la rabosa, il cui vino, precisa, viene prodotto per rispondere alle richieste di Venezia, sia per un consumo diretto che per aggiustare vini più deboli.
A sua volta, per il consumo diretto, giunto a Venezia il vino Raboso di Cimadolmo prendeva due strade: entrava nelle case del patriziato che prediligeva la carne rispetto al pesce o veniva caricato nelle navi veneziane, poiché, data la sua acidità e tannicità il Raboso si conservava perfettamente nei viaggi per mare.